Nella malattia di Alzheimer le modificazioni epigenetiche sono causa o effetto?

 

 

DIANE RICHMOND

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 24 gennaio 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza legata all’età e uno dei più gravi problemi di salute delle società ad alto grado di sviluppo socioeconomico. È dovuta ad un insidioso e progressivo processo neurodegenerativo che causa un declino cognitivo globale e si esprime sul piano istopatologico con i due contrassegni descritti per la prima volta nel 1906 da Alois Alzheimer: placche amiloidi, dovute ad accumulo extracellulare di peptidi β-amiloidi, e degenerazione neurofibrillare, legata alle alterazioni della proteina tau all’interno del neurone. In una prospettiva epidemiologica, dopo l’età, la storia familiare è il secondo grande fattore di rischio ed ha rappresentato un motore per la ricerca genetica, che ha avuto un ruolo fondamentale per il recente progresso nella conoscenza della biologia dell’Alzheimer, dal livello neuropatologico a quello molecolare. In termini genetici, la demenza alzheimeriana è una malattia complessa ed eterogenea e sembra seguire una dicotomia legata all’età, in cui mutazioni familiari rare ed altamente penetranti, trasmesse come un carattere mendeliano autosomico dominante, sono responsabili di forme ad insorgenza precoce (EOFAD, da early onset familial Alzheimer’s disease), mentre comuni polimorfismi senza ereditarietà mendeliana, ad alta prevalenza ma con una penetranza relativamente bassa, aumentano il rischio per le forme ad insorgenza tardiva (LOAD, da late onset Alzheimer’s disease)[1].

Così come è attualmente concepita, la categoria nosografica della malattia di Alzheimer corrisponde ad un processo patologico ad eziologia non ancora definita, se si eccettuano le forme familiari, e a patogenesi solo parzialmente nota[2]. Sulla base di una mole considerevole di evidenze sperimentali si tende a considerarla come una malattia multifattoriale indotta da una combinazione di fattori genetici ed ambientali, pertanto le modificazioni epigenetiche potrebbero essere una chiave per completare e comprendere il mosaico di dati patogenetici attualmente accertati. Lo studio dell’epigenetica della malattia di Alzheimer sta recentemente emergendo come nuova e promettente area di ricerca sulle cause, a partire dall’interazione fra il genoma e varie condizioni ambientali.

Alcuni studi hanno già rilevato possibili interazioni fra variazioni epigenetiche e deposizione di peptidi β-amiloidi, altri studi hanno fornito un collegamento fra geni di forme familiari e neuropatologia sporadica. L’ambito di indagine, sicuramente promettente, si è arricchito di un nuovo ed interessante lavoro condotto presso l’Università di Firenze da Irene Piaceri, Beatrice Raspanti, Andrea Tedde, Silvia Bagnoli, Sandro Sorbi e Benedetta Nacmias.

I ricercatori hanno realizzato uno studio di metilazione delle regioni dei promotori dei tre geni principali fra quelli ritenuti responsabili della malattia, in 60 pazienti affetti dalla forma ad esordio in età avanzata (LOAD) e in 60 persone equivalenti per caratteristiche e fungenti da gruppo di controllo. Il risultato ottenuto è degno di nota (Piaceri I., et al. Epigenetic Modifications in Alzheimer’s Disease: Cause or Effect? Journal of Alzheimer’s Disease 43 (4): 1169-1173, 2015).

La provenienza degli autori dello studio è la seguente: Department of Neuroscience, Psychology, Drug Research and Child Health, University of Florence, Firenze (Italia).

La forma familiare ad insorgenza precoce (EOFAD, da early onset familial Alzheimer disease) costituisce una piccola minoranza, non superiore al 5% del totale dei casi di malattia di Alzheimer, e si caratterizza per una trasmissione mendeliana autosomica dominante. Sono state rilevate più di 200 mutazioni con un ruolo causale nella EOFAD in tre geni: il gene del precursore della β-amiloide, APP, sul cromosoma 21; il gene della presenilina 1, PSEN1, sul cromosoma 14; il gene della presenilina 2, PSEN2, sul cromosoma 1. Le mutazioni più frequenti, ossia quelle presenti su PSEN1, portano in genere ad evidenze sintomatologiche diagnostiche dopo i quarant’anni e sono responsabili della maggioranza dei casi che insorgono prima dei 50 anni[3]. Anche se queste mutazioni riguardano tre geni siti su tre cromosomi diversi, hanno in comune la via biochimica dell’alterata produzione di β-amiloide, che determina un eccesso di peptidi Aβ42 che, aggregandosi in fibrille insolubili, precipitano formando la sostanza amiloide che si condensa nelle placche, e causano una successione di eventi che termina con la morte di un numero elevato di neuroni cerebrali, con conseguente sviluppo della demenza e degli altri sintomi correlati. Si ricorda che i peptidi Aβ sono prodotti per effetto della scissione sequenziale di APP da parte di β- e γ-secretasi[4]; la scissione alternativa da parte dell’enzima α-secretasi porta alla produzione di un frammento APPα solubile, e perciò innocuo.

Le modificazioni di un altro gene, UBQLN1 (ubiquilina 1), sono state rinvenute in casi familiari di malattia di Alzheimer. La proteina codificata interagisce con presenilina 1 e presenilna 2 e partecipa alla degradazione proteasomica.

La forma ad insorgenza dai 65 anni in avanti (LOAD, da late onset Alzheimer disease) costituisce la patologia che riguarda la stragrande maggioranza dei casi, un tempo considerati idiopatici, ma che vari studi, soprattutto quelli condotti su gemelli, hanno indicato come molto probabilmente condizionati in modo decisivo da fattori genetici. In realtà, fino all’avvento delle tecnologie di screening esteso all’intero genoma (GWAS, da genome-wide association studies), un solo gene era stato identificato con certezza quale causa di LOAD: l’allele ε4 dell’apolipoproteina E (APOE) sul cromosoma 19[5]. Prendendo le mosse dagli studi classici di Allen Roses e colleghi, si è stimato che la presenza di questo allele triplichi il rischio di sviluppare la malattia. Il possesso di due alleli ε4 rende virtualmente certo lo sviluppo della malattia oltre gli ottanta anni. Molto più raro delle varianti Apo E, il polimorfismo in TREM2 conferisce lo stesso rischio di malattia[6].

La GWAS ha sostanzialmente ridefinito il panorama della ricerca genetica della maggior parte delle patologie, inclusa la malattia di Alzheimer, nel giro di pochi anni. Sono state identificate varianti significative in o presso BIN1, CD33, CLU, CR1 e PICALM; altri loci di suscettibilità potenziale in attesa di altre conferme sperimentali[7] sono ATXN1, EXOC3L2, GAB2, MTHFD1L e PCDH11X. L’aspetto rilevante di questa ricerca è che l’identificazione di nuovi geni soggetti a mutazioni patogene potrebbe portare all’identificazione di nuovi meccanismi molecolari implicati nella patogenesi della malattia e, magari, consentire di distinguere le forme sulla base di differenze patogenetiche e, in futuro, delineare possibilità terapeutiche più specifiche[8].

Riprendendo quanto gli stessi autori dello studio qui recensito riportano nell’introduzione, il meccanismo epigenetico più studiato è la metilazione della citosina localizzata nell’isola CpG (citosina-guanidina dinucleotidi) che forma la 5-metilcitosina (5mC). Tale meccanismo è implicato nell’espressione genica, potendo determinare sia il silenziamento che l’inattivazione del gene. L’invecchiamento umano è caratterizzato da specifici cambiamenti nell’espressione genica, tali che le modificazioni epigenetiche rappresentano i principali fattori di rischio per varie malattie di età geriatrica, comunemente dette “malattie dell’invecchiamento”. Infatti, se lo stato di regolazione epigenetica transita in uno stato di errore, si può avere lo sviluppo di processi patologici.

Alcuni studi hanno riportato possibili interazioni fra modificazioni epigenetiche e tipici processi della fisiopatologia alzheimeriana, come il depositarsi di fibrille costituite da aggregati del peptide beta-amiloide. Le alterazioni della metilazione del DNA nei cervelli di pazienti affetti da malattia di Alzheimer sono state analizzate in vari geni implicati nella patogenesi della malattia. Recentemente, sono stati studiati cambiamenti epigenetici in una selezione di sette geni di interesse per la malattia di Alzheimer in tessuto cerebrale prelevato post mortem: è stata trovata in due geni, ossia APP e MAPT (il gene della proteina tau) un’alterata metilazione di CpG, fornendo un collegamento fra i geni delle forme familiari e i geni delle forme cosiddette sporadiche. In ogni caso, questi studi hanno esaminato lo stato epigenetico in cervelli alzheimeriani di defunti, ma nessuno ha correlato questi risultati con la metilazione del DNA in vivo.

Irene Piaceri e colleghi hanno studiato la metilazione in relazione ai tre geni riconosciuti come eziologici per la malattia ad insorgenza precoce, ma recentemente associati anche alle forme ad esordio tardivo[9]: APP (AβPP), PSEN1 e PSEN2.

Le regioni dei promotori dei tre geni associati allo sviluppo di malattia di Alzheimer, in tutti i 120 volontari esaminati, ovvero sia nei 60 pazienti di LOAD che nei 60 sani fungenti da gruppo di controllo, erano nell’insieme “fortemente non metilate” - come si legge nel testo - ma, nelle persone affette dalla neurodegenerazione, la metilazione risultava accresciuta.

Rinviando alla lettura integrale del testo della comunicazione per la descrizione del lavoro e i dettagli della sperimentazione, si può concludere, con gli autori, che questo studio aggiunge nuovi elementi di prova alle conoscenze attuali, dimostrando l’implicazione di cambiamenti epigenetici in grado di influenzare la patogenesi della malattia di Alzheimer.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la collaborazione, e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Diane Richmond

BM&L-24 gennaio 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Per questa dicotomia genetica, quale caratteristica comune alle principali malattie neurodegenerative, si veda la discussione: Note e Notizie 24-01-15 Aspetti genetici comuni alle principali malattie neurodegenerative. Specificamente per la malattia di Alzheimer rimane un’utile lettura l’articolo di Rudolph Tanzi che può ormai considerarsi un classico: Tanzi R. E., A genetic dichotomy model for inheritance of Alzheimer’s disease and common age-related disorders. Journal of Clinical Investigation 104 (9): 1175-1179, 1999.

[2] Non tutti condividono il criterio ispiratore della categoria nosografica attuale: selezionando criteri genetici, biochimici ed istopatologici, come proposto dal nostro presidente, si potrebbe giungere alla conclusione che sotto l’etichetta di malattia di Alzheimer si comprendono, in realtà, malattie diverse accomunate da alcuni caratteri patologici e clinici.

[3] Una banca-dati che raccoglie le mutazioni associate alla malattia di Alzheimer e alla demenza fronto-temporale è la “AD & FTD Mutation database” all’indirizzo http://www.molgen.ua.ac.be/ADMutations/.

[4] La maggior parte delle mutazioni causanti la malattia nel gene di APP sono localizzate vicino ai siti di clivaggio, cioè negli esoni 16 e 17. Si ricorda, poi, che le preseniline sono le subunità catalitiche del complesso enzimatico responsabile della scissione dell’APP da parte della γ-secretasi. Queste scoperte hanno spiegato il collegamento fra le mutazioni nei geni APP, PSEN1 e PSEN2 e l’aumento della produzione di Aβ rilevato all’esame necroscopico del cervello di pazienti morti per Alzheimer, fornendo supporto all’ipotesi patogenetica dell’amiloide sostenuta per primo da Dennis Selkoe.

[5] Interagendo con APP o tau, Apo E modifica la formazione delle placche.

[6] Guerreiro R., et al. TREM2 variants in Alzheimer’s disease. New England Journal of Medicine 368: 117, 2013. Si ipotizza che TREM2 nelle forme sporadiche causi un insufficiente smaltimento dell’amiloide da parte dei fagociti.

[7] Al tempo di pubblicazione delle principali fonti di riferimento [Cfr. Christina M. Lill, Rudolph E. Tanzi, Lars Bertram, Genetics of Neurodegenerative Diseases, pp.719-736, in “Basic Neurochemistry” VIII edition (Brady, Siegel, Albers, Price, eds), Academic Press, Elsevier, 2012].

[8] Da anni un lavoro di costante aggiornamento su questo filone della ricerca genetica, inclusi gli studi di meta-analisi, è stato curato dal gruppo di Tanzi presso l’Alzheimer Research Forum genetic database, “AlzGene” (www.alzgene.org).

[9] Ad es.: Cruchaga C., et al. Rare variants in APP, PSEN1 and PSEN2 Increase Risk for AD in Late-Onset Alzheimer’s Disease Families. PLoS ONE 7 (5): DOI: 10.1371/journal.pone.0031039; February 01, 2012.